Portare Verga in scena mette a dura prova qualunque compagnia: non solo per il peso che l’autore riveste nel nostro patrimonio letterario, ma anche per quel verismo che racconta, con crudezza e verità, l’anima dei siciliani. La Roba, in particolare, è una novella che per natura sembra distante dalle tavole di un palcoscenico; eppure, per la forza del protagonista, continua ad affascinare registi e attori. Mauro Italia, con garbo e rispetto, affronta questa sfida con dedizione. Elabora una drammaturgia che rende omaggio a Mazzarò, ampliando lo sguardo a una Sicilia rurale di fine Ottocento, fatta di stenti, bramosie e silenzi contadini. I tempi narrativi seguono la storia con coerenza, senza forzature o scorciatoie. In scena, nove personaggi ben caratterizzati contribuiscono alla costruzione del climax attorno alla figura del protagonista.
Mazzarò, come Mastro Don Gesualdo, è un uomo che si è fatto da sé — un self-made man, direbbero gli americani. Il suo sacrificio estremo prende forma attraverso l’intensa interpretazione di Pippo Zanti, che indossa i panni lisi del personaggio con naturalezza, dando voce a una rabbia antica, urlata fino all’ultimo respiro. Il regista mostra empatia verso Mazzarò, lo assolve, ne giustifica la sete di “roba” come reazione ai soprusi subiti, a una vita priva d’amore. Giorgia Messina, nel ruolo di ’za Mara, è la voce di Verga: racconta, dissente, osserva — è la coscienza critica della scena, presenza vigorosa e carismatica. Ninetta Lavio, nei panni di donna Teresa, interpreta con misura la serva fedele: sempre un passo indietro, ma capace di tessere con destrezza i fili della vicenda. Giuvanni, cammeo che il regista si ritaglia su misura, strappa risate al pubblico: scelta felice per stemperare la tensione di un’opera che, altrimenti, rischierebbe di risultare troppo cupa. Tra le ossessioni di Mazzarò trova spazio anche l’amore ingenuo tra due giovani, interpretati con grazia da Silvia Corbino e Lorenzo Ferraro. Il barone Ronsisvalle, baffuto e apparentemente stereotipato, è reso con misura da Santo Riffa, che evita con intelligenza le trappole del cliché sui blasonati. Merita una menzione speciale Giuseppe Ciacchella: padre di famiglia e ladro per caso, offre un momento di intensa drammaticità. La sua disperazione, posta di fronte all’intransigenza di Mazzarò, è atroce, vibrante e profondamente umana: un richiamo universale al dolore che, talvolta, ci toglie la dignità. Il baritono Marco Zarbano impreziosisce lo spettacolo con una nenia funebre eseguita con compostezza e solennità. Le scene, curate da Paola Avallato, colpiscono per la loro essenzialità evocativa: nelle discromie di una parete scrostata si coglie tutta la suggestione realistica di una vecchia masseria siciliana. Applausi meritati anche al finale: un commiato intimo e struggente, in cui le luci e il suono — curati con sensibilità da Demetrio Morello — restituiscono le intermittenze di una vita e i singhiozzi di un’anima. Mazzaró non odora di stantio, è familiare. La sua corsa all’avere rispecchia la società odierna degli acquisti compulsivi.
Il suo monito, tornando a casa, risuona forte nelle orecchie di chi ha voglia di ascoltare.